lunedì 9 luglio 2012

"I mostri che abbiamo dentro" (recensione)


TEATRO. UN OMAGGIO A GIORGIO GABER: IN SCENA LE FOBIE UMANE 



"I mostri che abbiamo dentro"


Mettere in scena il teatro-canzone di Giorgio Gaber richiede una buona dose di impegno e partecipazione. Ma se al di là dell’omaggio si restituisce allo spettatore una lettura fresca e rispettosa di quel bizzarro e originale modo di intendere il palcoscenico che fu unicamente dell’artista milanese, allora lo spettacolo che ne deriva può essere nuovo e piacevole. È stato il caso di “I mostri che abbiamo dentro”, performance teatrale in scena al Teatro de’ Cocci, a Roma, dal 12 al 17 ottobre. Da un’iniziale distanza, dovuta, in parte, alle attese che lo spettatore nutre ogniqualvolta compare il nome di Gaber in cartellone, la rappresentazione ha man mano preso una piega curiosa, in un crescendo di fusione ed empatia. “I mostri che abbiamo dentro”, dal titolo di una canzone dell’ultimo album di Gaber “Io non mi sento italiano”, è la messa in scena delle paure, delle fobie e delle incongruità umane, la rappresentazione di quei mostri silenziosi ed insinuanti, insaziabili e funesti “che vivono in ogni uomo nascosti nell’inconscio”. I sei giovani attori della compagnia “Associazione culturale Tre torri”, con la regia di Ilma Anvasian, hanno saputo rappresentare le questioni del vivere sociale secondo la visione libera e critica del grande uomo di spettacolo scomparso due anni fa. Da “La sedia” che apre l’esibizione, a monologhi divertenti e amari che declinano l’uomo in differenti accezioni: dalla presa di distanza de “L’anarchico” alla voracità de “L'obeso”, inteso come allegoria di tutta la follia del mondo, dall’ironia che suscita l’uomo che sbaglia (“L’equazione”) alla drammatica fine dell’amore (“Il dilemma”). In scena l’umanità con le sue ambiguità, i suoi controsensi, la sua falsa coscienza ma anche le sue debolezze e i suoi difetti.
Un’ora e mezza di spettacolo basata su quella formula che Gaber portò, con il suo co-autore Sandro Luporini, ai massimi livelli: alternanza di canzoni e monologhi, solitudine scenica, rappresentazione di situazioni reali e coerenza fra parti cantate e recitate. Uno sguardo alla realtà quotidiana senza la presunzione di proporre soluzioni ma con il semplice intento di insinuare il dubbio in chi ascolta. Teatro e canzoni in scambievole alternanza, come faceva il Signor G.

Ed è nel non far finta di essere Gaber che piace lo spettacolo

Manifestare le paure e renderle evidenti le alleggerisce del loro potere coercitivo: le trasforma da condizionamento a condizione favorevole. Allora l’occhio di bue puntato sull’attore mentre interpreta tic, fobie (dalle più comuni come quella del gas o dell’ascensore) ma anche mentre porta in scena la gelosia e il sogno, illumina in realtà fino alle ruvidità umane, dove la vita si impunta e deve necessariamente fare i conti. I mostri, canta Gaber, sono la nostra sostanza, “i mostri che vivono in ogni mente/ che nascono in ogni terra/ inevitabilmente ci portano alla guerra”.
Ad un certo punto è sempre Gaber a far pensare o divertirem ma non importa, l’intuizione è buona. Come diceva Gaber: “Il pubblico che arriva è quanto di più disomogeneo possibile, mentre l'unione alla fine, è un'unione emotiva su una carica, su una voglia che è quella di vivere e di cambiare anche le cose”. Allora “Goganga” che funge da sipario tra una scena e l’altra fa sorridere e alleggerisce tutto il peso delle contraddizioni umane. Si legge su un numero de "Il Mucchio Selvaggio", poco dopo la sua morte: “Giorgio Gaberscik, un mulino a vento contro l'idiozia. Abbiamo perso una voce insostituibile. Un pensatore in meno in grado di raccontarci in che mondo (spudorato e assurdo) viviamo”.

[Rachele Masci]
AprileOnLine.Info n.123 del  19/10/2004
Supplemento Quotidiano di "Aprile, il mensile"




"I mostri che abbiamo dentro"
con 
Ilaria Antoniani
Andrea Ceraolo
Simone Colella
Walter Gizzi
Mauro Mantovani
Antonio Trentadue

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